Suicidi
S
(totali/parziali e di chi non crede in nulla)
La grandezza è scegliere la felicità dove gli altri trovano dolore.
Corpo mortale, corpo abbandonato, corpo amato, corpo violato, corpo malato, corpo oggetto, corpo nella sua differenziazione di genere, corpo carne, corpo-macchina, corpo fatto di cani.
“Un impegno scritto a non suicidarsi: è la richiesta che la Foxconn l’azienda
taiwanese che lavora per i giganti dell’informatica come Apple,
Nokia, ha fatto ai suoi dipendenti dopo l’ondata di operai che si
sono tolti la vita nella
fabbrica a Shenzhen, in Cina meridionale (l’ultimo un diciannovenne che si è
gettato da un balcone dopo appena 42 giorni di contratto): orari
di lavoro stremanti, brevi pause per il pranzo, riposo nei dormitori.
La strage silenziosa è in città come Shenzhen, città artificiale nata alle porte di Hong Kong.
Città come queste nel mondo ce ne sono tante, tenute nascoste perché la loro
ragione di esistenza è solo quella della produzione e del profitto, dove le
più basilari regole sono ignorate. L’impegno scritto a non suicidarsi, un po’ di inchiostro su un pezzo di carta a
“fermare” la disperazione. Dall’inizio dell’anno solo alla Foxconn sono stati 12 gli impiegati cinesi che si sono buttati nel vuoto. Una media di due al mese.”
Vi spiego la teoria di Hamer, se provi uno spaventoso dolore (spavento più dolore), c’è un relet nel tuo cervello che farà ammalare un organo corrispondente, un cane che soffrirà in proporzione al tuo doloroso spavento. E’, sì, decisiva la forza devastante del dolore improvviso, ma ancora di più, molto più incisivo, è la lunghezza di tempo che ci si mantiene in questo dolore. Lo stress, la fatica, il rancore continua a liberare cani malati.
È un parziale suicidio: se soffri ti uccidi una parte del corpo e addirittura se insisti a soffrire ti uccidi in modo non più reversibile, senza poter mai più invertire il corso, il danno diventa irrimediabile. Per poter stare sani, la felicità è la condizione necessaria e sufficiente.
Dovremmo farci una foto quando stiamo bene fisicamente, fanciulloni, perchè in fondo stiamo bene mentalmente, siamo educati alla vita, onesti con noi, ci trattiamo con riguardo, anche se, come quei contadini giulivi e incoscienti, non lo sappiamo.
Tempo fa un bagliore mi ha investito. Mi sono detta: Samu’ avrai la pressione alta. Invece poco dopo ho visto la mia foto riprodotta in tre volte. Sembravo la Monroe di Warhol. Un tipo aveva una macchina a infrarossi che fotografava l’aura. Nella foto ho visto che dal mio cranio usciva roba buona, scintille d’oro che crepitavano, una femminea scatoletta che tante persone tennero fra le braccia e che incessantemente guarda, ride e produce: chi pensate sia stato a inventare l’unto delle piante grasse? E chi pensate abbia scoperto il modo di castrare le lumache nel suo guscio? E chi pensate abbia inventato l’accento acuto? Il mio cervello è capace di immagazzinare dieci fatti nuovi al secondo, miei prodi.
Dopo un’opulenta spavalderia, ragioniamo. Dovremmo avere sempre una macchina fotografica sull’ombelico per fermare le facce. Sono piena di fermo-immagini dell’Enorme, detto il Mastodonte, anche (detto) il Carrarmato quando urla che la vita è una zuppa di escrementi e che tutti i suoi contemporanei, nessuno escluso, hanno facce da scatofagi. Tra i neri stridori, il suo respiro sembra un vecchio ventilatore di un albergo tropicale, gli favello umile e prona: grazie buon uomo che mi fornisci elementi utili alla mia maturità, si va a mangiare un’ amatriciana, eh Furia cavallo dell’west? E lo vedo, così, sgonfiare la pancia-ministeriale, spegnere le gote, stirare i lineamenti e gli rientrano, pure, gli occhi. Gli ho detto una volta: “Il tuo passato non è che un secchio di cenere, chissà quanto poco tempo manca alla tua morte perchè manca un senso alla tua vita, mio buon monotesticolo!”, mi permetto tutto con lui perché è un cane che abbaia prima di mordere e quindi mi dà il tempo di scappare, quelli veramente cattivi, crudeli e perfidi ti arrivano addosso silenziosamente.
Dopo il mio nome la cosa più bella che ho è il cinismo. C’è il finto cinico, alla moda, rassegnato, sguercio: quelli che pensano che non c’è nulla da fare, da credere, per cui vivere, questo è il cinico senza palle, vittimista e facilone, il Qualunquista.
Non sa che il Papa, Berlusconi e la televisione sono tre conseguenze, tre sintomi e non cause: lo strappo, la lussazione e la distorsione sono disturbi a carico dei beneficiari, ricordatevelo!
Il cinico vero, puro, è gelido e lucido, per guardare bene sospende per il tempo che serve, l’amore e tutte le svariate emozioni, e, senza smelensaggini, svenevolismi e leziosismi, vede bene, (vedere bene tradotto per i più intellettuali: l’autonomia dell’attività mentale è mantenuta meglio in assenza di contatti emotivi). Il mio orrore, amici, non cede alla pietà quando devo prendere decisioni.
Possiamo dividere l’umanità in due categorie: chi crea problemi e chi li risolve: io spremo sempre soluzioni, produco milioni di ipotesi che metto in uno schiacciapatate, finché salta fuori una robina piccola, facile, logica, ovvia: la soluzione, è come un treno con cento rimorchi talmente pressato che sta in un astuccio da cucito.
Questo è cinismo, fratelli, un insensibile essenziale sguardo sulla vita per trovare soluzioni, una volta trovate, una volta fatti i compiti, si può andare in cortile a giocare all’amore e dintorni.
Ma l’ordine planetario è bee stupid! Sii stupido!, essere genericamente pessimisti, finti cinici, l’ha fatto suo la Diesel sui cartelloni semi abusivi condonati, sfondo nero e caratteri bold. E si vede, come una parabola del Signore, o come una favola di Calvino, un simpaticone a cavalcioni dalla parte della coda su un cigno gonfiabile, ma se si guarda ancor meglio vedi che lo scemotto è un po’ bullo, sul carino-giovanile, furbetto, con le sue pupe succinte attorno. Non è un invito ad una francescana pace e neanche ad una serendipity, ma cavalca all’incontrario i grandi orizzonti e i grandi ideali del Novecento. Lectio magistralis!
E’ solo la tipica, triste pubblicità fatta dai marpioni del business per i ragazzini: vuota. Assolutamente vuota. Parole a sbarra, monocordi, come quelle che escono dalle macchinette dei parcheggi benvenuto, infilare il biglietto, attendere prego.
I grandi sono davvero cattivi, non lo sanno i bambini. Bisogna che imparino presto a difendersi per non soccombere, altrimenti qualcuno li metterà in una fabbrica senza vita, li lasceranno stupidi e gli diranno che il mondo è davvero brutto. Per divertirli daranno a loro in pasto un Fabrizio Corona, un nichilista pseudo-cinico e triste. I grandi sono cattivi, tant’è che i sacerdoti è meglio che non diano carezze (che il Bastonuto decida per sempre di separare ragazzi/preti!) e gli intellettuali non dovrebbero parlare ai piccoli manovratori.
Non si dovrebbero toccare con avidità le cose delicate.
Ehi, tu piccolino, tu, digital native, si proprio tu che ti fai la cresta e ti dai un sacco di arie, tu che sai tutto ed è tutto quello che sai, che nel giro di trenta secondi sei infelice o pazzo di felicità, che passi ore davanti ad un monitor, tu, che quindici anni fa non c’eri, tu che guardi i grandi e vorresti i loro soldi, la loro sicurezza, i loro whisky, il loro calcio, tu che io ho sempre difeso quando tutti dicevano che siete marci, tu ancora piccolo piccolo, che dici “cazzo” come intercalare, tu che mi scoppi nel cuore per tenerezza, non cascarci, piccolino, la maggior parte dei tuoi idoli sono macchine per soldi, non bevono, non si drogano, fanno la dieta e, a parte quel charlottino triste di Jackson, non muoiono mai, non sono Jim Morrison o Janis Joplin. Quando sarai grande ricordati di non essere stupido, di non essere la pecorella di un santone mediatico, ma un’anima bella. Stai attento! Dicono che a New York, un quindicenne su centomila scappa di casa e non fa più ritorno. Si suicida da qualche parte. Guarda questa mamma cattiva che è il qualunquismo. Guarda, guarda e guarda più freddo che puoi.
Una volta si diceva: “In ogni città d’Italia c’è un giovane pronto a morire per Sanguinetti”, perché era un elegante pessimista, un crepuscolare apocalittico, un divertente disfattista, ma nel Novissimum Testamentum rivolto ai figli ha scritto: “Vi lascio cinque parole, e addio: non ho creduto in niente”.
Questo è il cinico impotente, quello che non vede bene, che non ha visto bene.
Io credo in una guerriera, ferocissima e mitissima, Samuela, talmente che se un pomeriggio alle sei vieni da me, resti come me fino al giorno dopo.
Non sono un’esaltata: quando faccio la spesa, lì alla cassa, mi faccio sempre un’infinita tenerezza.
Perchè, fratelli, quanto valgo non può essere verificato da voi, valgo quanto decido io.
Nella folla se uno grida Pirla, io non mi giro, non essendolo.
Ti do il mio scopo, amico: non è facile; non solo, non è neanche facile da capire, figurati! Addirittura non è neanche facile offrirlo in parole come cibo precotto. Ma eccolo, tradotto col misero linguaggio degli umani, eccolo più umile di quel che sembra, in una sola unica parola:
meritami!
“Se ora me ne vado
Prenderò per mano la prima persona che incontro
La costringerò ad accompagnarmi in un caffè di una via
laterale.
Le dirò che un uomo dorme nella stanza accanto alla mia
senza incubi,
la sua mente non ha nulla a che fare con il mio corpo;
non è riuscito a essere
per me nemmeno un secchio della spazzatura, nemmeno
una volta ha lasciato
che tutto scorresse nelle vie principali.
Le dirò che sono orfana
credevo fosse sufficiente
scrivere belle poesie,
che non corrispondevano alla realtà.
E che non badavo a me stessa
al punto che una leggera infiammazione al setto nasale
ora minaccia di diventare maligna,
tuttavia continuo a mentire.
Bisognerebbe essere un po’ angeli prima di morire
affinché gli amici
non si affatichino a cercare
le nostre virtù.
E che la mia morte
sarà più semplice di spostare il mio piede destro
qualora mi lasciasse sola.
In un caffè in una via laterale
confesserò a un uomo che non conosco molte cose
all’improvviso
comprimerò le corde vocali
sul suo antico desiderio di aiutare qualcuno.
Forse mi condurrà alla sua casa e sveglierà sua moglie.
La osserverò avanzare verso di me
mentre inciampa in uno sporco tappeto
come una contessa di campagna, e costruirò
la mia timidezza per metterla a suo agio, e renderla fiera
di suo marito mentre mi chiede di ricominciare, e mentre
io gli prometto di imparare a suonare uno strumento
adatto alla mia corporatura minuta
e che ci incontreremo di nuovo nei giorni festivi.
Ho minacciato tutti coloro che mi hanno amato
che mi sarei uccisa
qualora mi avessero lasciato.
Non credo che morirò mai per qualcuno.
I suicidi – non v’è dubbio –
si fidavano della vita molto più del dovuto
e credevano che li aspettasse altrove.
Non me ne andrò prima che egli muoia innanzi a me.
Appoggerò l’orecchio sul suo petto dove il silenzio è più forte
di ogni tentativo di farmene dubitare, neppure
un gatto ha gli artigli di una donna delusa
che cerca di rovesciare il cestino della spazzatura colmo
degli avanzi
della nostra giornata insieme.
Metto il cestino fuori dalla porta
per dimostrare ai vicini che ho una famiglia tranquilla.
prenderò le tue dita
osserverò la precisione di un chirurgo
che non ha bisogno di bisturi
per rimuovere piaghe in un corpo che si divora.
Metterò la tua mano in un contenitore per il ghiaccio in cui
non vi sono brividi
e me ne andrò da qui
avvolta nella perdita e nella luce.
Devi morire innanzi a me.
La morte di colore che si amano è una grande opportunità
per prendere in considerazione sostituti.
Sul treno del Delta orientale scelgo sempre una signora come
si deve
che spalanca le porte della sua simpatia quando le dico
che mia madre è morta quando avevo sei anni.
In verità
è morta quando avevo sette anni
ma secondo me “sei” ha un effetto maggiore.
Le madri di mezza età sono assuefatte alla tristezza,
forse si abituano al dolore prima del tempo.
Questi ritocchi nella narrazione
hanno un che di magico
che non può essere compreso da coloro
che non hanno mai dovuto carpire la simpatia degli altri.”
Iman Mersal
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