Esistono, li ho Visti.

N

“Quando gela non escono le lacrime,

piangerò in primavera”

ERRI DE LUCA

Ho messo all’incasso un assegno di duemila euro. Era senza copertura. Non solo non mi pagherà il Bacucco della firma, ma dovrò pagare tutte le spese del notaio nelle cui mani il fogliettino andrà, mi dicono.

In più mi aveva chiesto 200 euro, e poi, subito il giorno dopo 250 euro, perché il camion è fermo e non ha i soldi per andare a lavorare.

Non sono capace a difendermi dalle richieste col pianto.

Sono napoletani veraci, di quelli che parlano con il mento alto, il ciglio alzato, la palpebra semi-chiusa e abbaiando, come nel film Gomorra, in cui nessuno ha la raucedine.

Pii del dio Pio, la mosca non osa volare sul loro naso, perché hanno lo scazzo veloce, ma chiedono, chiedono sempre, sempre, senza dignità, decoro e amor proprio, tre cose quest’ultime di cui io abbondo.

Chiedono soldi a chi glieli ha imprestati poco prima, la gente debole deve essere spremuta e raggirata, non conoscono la gratitudine. Anzi, diventano insaziabili, può servire piangere sulla mamma giù a Napoli, giurare sui figli, piangono e insistono fino al limite dell’insopportabile. Dalla minaccia di uccidere possono passare a piagnucolare. E’ un attimo.

Lacrime e prepotenza, strane cose per me.

Pondero mostruosamente, mi sciupo la mente. Poi decido: vado a proporgli un compromesso, in fondo sono gente che se tira vento il vaso cade sempre sulla loro testa, sembrerò losca: ma come, aiuti gente che ti ha fregato con gusto e ti fregherà appena potrà, da quando Cristiano Dior veste gratis le massaie del mercato?

Calcolo l’ora in cui hanno già mangiato gli spaghetti e ceffonato i bambini. E busso.

Non sto qua a descrivere il casino che è scoppiato in un batti baleno, non sto qua. Dopo dieci minuti urlavamo tutti, il cane abbaiava, la bambina piangeva ed erano venuti pure i carabinieri.

Tutti immedesimati nei propri personaggi da interpretare: i carabinieri facevano i “carabinieri meridionali”, quelli delle barzellette, non quelli del reality con Raul Bova. Burocrati, bulli, in un italiano che non c’è più, sembravano i gendarmi di Pinocchio, non mi meraviglierei che li avessero trovati in un negozio di costumi di carnevale. I napoletani facevano i napoletani. E io facevo quella del nord che ha fretta.

Li imploro, ripeto li imploro, tutti quanti di finirla lì. Ma l’ufficiale con i Ray Ban a specchio, modello goccia, ci dice che dobbiamo andare al pronto soccorso per vedere se siamo laceri-contusi e poi fare la denuncia.

Quando per l’ennesima volta mi guardo nei suoi occhiali, dico: “Per favore, non ci faccia andare al pronto soccorso, è lo stesso per me, anche se sono la vittima. Non ci vado neanche se sono in fin di vita, figurarsi andarci tutti quanti, tutti sani, a far perdere tempo ai medici oberati.” Se era per me non avrei chiamato neanche loro. Ma il ciordo in divisa è irremovibile, anzi mi dice che inizio a scocciarlo.

Dopo qualche minuto siamo tristemente al pronto soccorso tutti. E’ gremito, la previsione di attesa è di cinque ore.

Io non so se nessuno di voi prova dolore a non andare a lavorare. Io sì. Io di tutta questa faccenda soffro per quei begli appuntamenti fissati con amore dalle mie segretarie, chiuse in quegli uffici per ore e ore, tanto da trasformarsi col tempo in scimmiette, le loro facce stanno diventando a forma di chiappe-di-sarta-seduta.

Lo so che quando si parla di lunedì, di fine ferie, di mattina feriale dobbiamo sembrare afflitti, dobbiamo far sembrare che trasciniamo il lavoro come un fardello: Gesù, ancora un lunedì, ancora lavoro! Ma io no, amici, mi vergogno a dirlo, ma lo dico: mi piace lavorare. Lavoro pure poco per non consumarlo, cinque ore non di più. Mi rilassa e mi eccita. E’ come se mi pagassero per assistere e fare lo spettacolo, due piaceri in uno. Mi sento piena di vita, potente, importante nella giostra economica del mondo.

Avevo convinto anche l’Enorme, così maestoso, vinoso, trionfante: siamo gli unici del nostro gruppo che siamo turbati, ma contenti, intimiditi dai nostri successi, ma traboccanti di beata allegria d’andare al lavoro.

Poiché non può ospitare troppa gente per volta nel testone, l’ho convinto a trascurare le donne e a innamorarsi sempre di più del lavoro, perché nel primo caso affonda in un vaso di colla da falegname, nel secondo è un Papa.

Una volta l’ho cercato per tutto l’hotel: “Dov’è il Grassone?”, chiedevo. Corridoi. Scale. Ri-corridoi. E ri-scale. Quando l’ho beccato stava già spogliandosi davanti a una sua simile. Si era tolto la cravatta talmente unta che sembrava di tela cerata, la canottiera no: per toglierla occorre un raschino. Una orchessa gli stava giusto aprendo la mensola per le cicche per entrarci dentro. L’alito del Trippone è un colpo di lanciafiamme che fa crollare a terra. Ma lei non era da meno: se non c’ero io che mettevo una sedia davanti al di dietro del pachiderma una mezza tonnellata andava a patafascio. Gli ho detto: “Fai un saluto meccanico alla signorina e irsss a laurà, barbù!”

Al pronto soccorso non avevo neanche portato con me l’agenda per disdire, solo (mi ero portata) una bambolina di vent’anni, una biondina minuta, molto intellettuale, con la vita come un anello da tenda, con le ballerine di cuoio come pure la borsetta che dà loro la replica, una tipina che è una presa di corrente da 220, dal peso piuma e dagli occhi furbi. Mi proteggeva dai bruti, studiando in parte a me “Istituzione di diritto privato”.

Fratelli, conosco molto bene ormai Erri De Luca, l’ho ascoltato con molta attenzione alla Fiera del Libro a Torino, l’ho rivisto cantare e recitare poesie a Padenghe e poi anche pochi giorni fa al Festival della Letteratura a Mantova, mite, dolcissimo, il più bel vecchio del mondo, indifeso, pieno di cultura, rispettoso e, incredibile!, napoletano.

Come ha fatto a essere diverso da chi urla e picchia, da chi chiede continuamente, da chi frega? Come ha fatto a salvarsi? Come fa ad aspettare calmo e buono fino all’ultimo giornalista con lo zaino in spalla, come i bambini, così sereno e sorridente. E quando è toccato a noi intervistarlo per la nostra rivista, gli ho visto negli occhi la malinconia di chi ha voglia di essere solo e gli ho solo detto: “Maestro, mi benedica!”

Lui considera un valore ogni forma di vita e l’assemblea delle stelle. Considera valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato. Considera valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere ad un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che. Considera valore sapere in una stanza dov’è il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.

Erri, perché gli altri del tuo paese stanno così male?

Forse è in questa poesia il segreto: non hanno sicurezze, sono sul vuoto, possono scomparire, affondano e devono razziare finché possono, credo.

NOI DI QUAGGIÙ

“Visitando l’oriente e l’occidente, noi quaggiù

ammiriamo

l’edilizia massiccia, il ripieno dei monti, il gonfio delle acque

e ci piglia il capogiro degli inghiottiti vivi.

Perché noi di quaggiù, noi veneriamo il vuoto,

quello di un vulcano, l’imbuto catarroso:

non sia mai che s’abboffa, sia lodato san vacante

che svacanta il cono acceso, amèn, amèn, ame’.

Noi siamo intenditori autorizzati del vuoto, nello stomaco

la fame: per noi non è mancanza,

è presenza di panza, denso di bisogno, accanimento,

spina sostegno, insonnia.

Pure le nostre case l’hanno per fondamento, meglio di un pilastro,

la città è impalcata su gallerie, spelonche,

i terremoti cozzano nel sottosuolo cavo

come il toro contro la pezza rossa,

il vuoto è il nostro toreador, sotto la plaza

scansa, protegge e salva più del nostro patrono.

Senza essere angeli della specie sprofondata

e senza ali, siamo campati in aria, noi quaggiù del sud

sotto usura di nascita, in debito da subito alla vita.

Voi siete il pieno d’ossa, cervello, sangue, pugno,

noi siamo aria nei bronchi, la tosse, una canzone, le vocali.”

ERRI DE LUCA

Ai meridionali che si sentono offesi: questa è una cronaca (tra l’altro vera) non ho mai espresso un giudizio. E, credetemi, mi sono controllata: avrei potuto giocare di più.

Ora una stupenda trattazione sulla mentalità stancante, perdente e sconveniente di questa cultura “napoletanistica”. Un capolavoro di chiarezza e di amabile cultura. Io adoro Mario Passero.

“Tali menti si basano per forza sull’istinto e non sulla ragione.
L’istinto, non mediato, è confuso con l’intuito.
Di nuovo la distorsione: l’intuizione è una facoltà superiore della ragione, non l’agire avventato e incosciente.
L’istinto, invece, per chi sa vedere è la spinta all’autodistruzione: raramente le cose che l’uomo fa d’istinto menano al suo interesse e nel caso degli incendi si vede benissimo. Per esempio un idropico per istinto beve quando la sua cura alla sete è non bere. L’esempio è classico ed è di Cartesio.
Nessun animale agisce d’istinto, specialmente quelli carnivori. Quello che un tempo si attribuiva loro come istinto innato, oggi con le nuove osservazioni, si sono scoperti essere o elementi culturali d’insegnamento materno o elementi del bisogno.
Solo l’uomo agisce d’istinto: violento, aggressivo, irrazionale. Tale uomo si chiamaBruto ( termine rinascimentale che designa solo l’uomo e mai gli animali nemmeno quelli ferini ). Il Bruto oltre alla messa in sospensione della razionalità ha anche una deficienza della volontà che non ha più l’ufficio del dominare e dell’indirizzare o dare un senso.
La a-cultura che sostiene il Bruto è quella patriarcale, sessista, maschilista, assolutista: si divide il mondo in due sfere una superiore e una inferiore, una del soggetto agente e una dell’oggetto agito, la prima è maschile e la seconda è femminile. Come dicono Platone e anche Aristotele è l’a-cultura che si basa sulpiù e meno.
Esattamente il Bruto agisce secondo lo schema della macchina: input e output, non c’è pensiero. Questo non suggerisce niente circa la nostra cultura dominante? Non si basa essa sull’informatica: output e input, 0 e 1, schema binario del pc.
La logica binaria è quella che regge la religione: Dio e Creatura, soggetto assoluto e oggetto annichilito. Regge anche il mondo sessista: maschio soggetto dotato di forza e femmina debole e romantica, sottomessa all’uomo, anima non perfetta, non dotata di ragione, incapace di vivere da sola. La conseguenza è l’amore romantico che sottende alla femmina tesa al matrimonio e macchina per partorire oggetti detti figli.
Il mondo binario è quello ancestrale ed è trasmesso per assenza di educazione di generazione in generazione. Il mondo del Bruto-macchina non può essere sovvertito benché sia fragilissimo, pena la sua morte per collasso: basta che il maschio non si comporti come richiede l’istinto, rubando e ladrocinando, violento fisicamente, che la femmina non si sente più protetta in un mondo che immagina come una giungla non regolata se non dalla legge binaria della forza bruta ( appunto ).
I due non sanno di vivere in una società regolata da leggi e ne vengono immediatamente emarginati. Si lamentano di questa condizione e, mancando di ragione, l’attribuiscono agli altri come i bimbi dicono cattivo! al tavolo che hanno urtato.
D’istinto mettono in atto tutti quei comportamenti che sono nocivi per loro, secondo l’essenza dell’istinto. Così è la femmina che aizza il maschio alla difesa della proprietà: considerano proprietà ciò che Lockedefiniva proprietà ciò su cui mettendo le mani sopra lo togli dallo stato di natura. Il lavoro in Locke è questo: se io metto la mano sulla mela, la mela è mia!, indipendentemente dagli altri e da quante mele ci siano.
Il principio di proprietà del Bruto è lo stesso che regge quello di proprietà delliberismo e del mercato odierno. Non c’è la vergogna del rubare. Il sentire vergogna presuppone l’essere umano, non la macchina del Bruto.
Il destino dei Bruti è il loro annichilimento senza pietà.
Sono questi gli esseri descritti da Samuela che io per esperienza ho ritrovato anche tra i veneti ( qui la categoria dei napoletani si rivela quella bufala che è ) però la distorta ideologia della storia che attribuisce uno spirito ai popoli ( da Hegel ) vela la realtà di ciò che è umano e ciò che non lo è e che non si può attribuire ad attributi insussistenti come napoletanità, quelli del nord, veneto etc.” Mario Ettore Passero

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