Cave Canem

Attenti al cane!

“O con ragione, o senza ragione, o contro di essa, io non voglio morire. E quando infine morirò, se morirò definitivamente, non mi sarò lasciato morire, ma mi avrà ucciso il destino umano. A meno che non giunga a perdere la testa, o più che la testa il cuore, io non mi dimetto dalla vita; da essa mi si dovrà destituire” (M. De Unamuno, Del sentimento tragico della vita)

Nessuno ha avuto una fiducia così totale in me come un bambino o un cane, sono l’allegra rappresentazione dell’istinto puro, rappresentazione che ci fa da specchio: per capire che umore avevo bastava guardarli. Il mio cane, spesso, mi ha fatto accorgere che soffrivo troppo.

Non sono un’animalista, non ho la passione per gli animali, no, ma per i cani e quelli di taglia grossa, quelli piccoli sono troppo dipendenti, hanno spesso un’ansiogena paura dell’abbandono. Nessuno, credo, mi ha dato l’amore incondizionato come un cane, potevano morire per me, lo so.

Mi hanno anche insegnato a capire la ferocia dell’uomo che uccide, che non è della donna, che è una sola, tutte le paci, invece, sono diverse. Li ho visti squarciare topi e talpe, esaltati, euforici, onnipotenti.

Sono stata un’aiutante d’una amica che aveva come clienti i cani i cui padroni arrivavano per sopprimerli. In campagna c’è un’etica durissima: si uccidono stretti conoscenti come una capra che si è allevata e anche i cani, quando hanno il cimurro o arti spezzati, ma anche quando sono vecchi o denutriti.

I cani sentono sempre quando stanno per morire, se sono liberi, se ne vanno, come i passeri (“pourquoi les oiseaux se cachent pour mourir?”), se li si porta al macello sanno che stanno entrando in un buco senza ritorno: appiattiscono le orecchie, abbassano la coda, s’impuntano e devono essere trascinati, spinti o presi in braccio come agnelli. Ma i peggiori sono quelli che leccano disperatamente la mano, offrono la loro amicizia, con disonore.

La morte dei miei cani è stato un dolore grande, ma non un dolore così grande da non poterlo vedere. Un Dolore con tutte le sue sfumature: vergogna, profanazione, sacrilegio, degradazione, quello che Hegel definiva “la infinita sofferenza del negativo”.

Il più bel saggio che ho letto sulla morte è quello di Messori, un uomo seducente e brillante nella scrittura, poi lo vedi in televisione e scopri che è severo, passatista e soprattutto arrabbiato perché gli uomini non pensano alla morte come lui e come fece Pascal con la sua scommessa. Dice sconsolato che era meglio un tempo. Davvero Vittorio? Eppure non c’è più la pena di morte, non si perseguita nessuno per la sua razza o la sua religione, si danno cure mediche a tutti, pensioni ai vecchi, chi vuole amarsi si ama e chi vuol separarsi si separa e si cerca di non far soffrire nessuno, nemmeno gli animali. Chissà che uomo vede, l’animale politico di Aristotele, il contraente sociale di Rousseau o l’homo oeconomicus.

Io invece intuisco che tutto è necessario, che ogni idea, gesto o sentimento ha la sua necessità d’esistere, che non c’è mai stato un errore, ma cupa esperienza. Quando Giovanni, nell’Apocalisse 22,13, fa dire al suo Cristo: “Io sono il Primo e l’Ultimo, l’Alfa e l’Omega, l’Inizio e la Fine, l’Origine e il Punto d’arrivo”, doveva in qualche modo aver capito che esiste una sorta di “finalismo”, di conclusione intelligente, una necessità di ogni cosa, che nulla è stato invano, nulla è un di più e nulla, in fondo, è mancato.

Quando è venuta l’ora fredda e umida in cui è morta da tutte le parti Diletta, una boxerina fulva che aveva come unico scopo amarmi, la mia mente ha continuato per giorni e giorni a proporre ricordi: quella volta che abbaiava ad un ombrello aperto, quando guardava con un’orecchia più pesante, o quando si fermava con una zampa alzata. Nel lutto si fa un’operazione di regia, un’operazione creativa e arriva sempre Dio, il creatore, perché solo vestito di dolore lo riconosciamo. Alla fine, però, sotto sotto, se si guarda bene, se si sta attenti, c’è la gioia, sempre.

“Perché la gioia vuole esistenza eterna per tutte le cose: vuole il miele, la feccia del vino, la mezzanotte, la tomba, la consolazione delle lacrime presso la tomba, il rosso dorato della sera. Cos’è che non vuole la gioia! La gioia è più assetata, più vigorosa , più affamata, più terribile, più estrema di ogni dolore… la gioia vuole l’amore, l’odio; infinitamente ricca, la gioia dà, getta via, implora perché qualcuno prenda, ringrazia chi prende, vorrebbe essere odiata! Tanto è ricca la gioia che è assetata di dolore, dell’inferno, dell’odio, della vergogna, dello storpio, del mondo! Oh la gioia lo conosce bene! Perché la gioia vuole se stessa; perciò vuole l’agonia del cuore. Oh, felicità! Oh dolore! Oh spezzati, cuore”. Nietzsche*

* La creazione è la gioia più profonda, dice Nietzsche, è la sorgente della volontà di potenza dell’uomo. La parola che lui usa “ewigkeit” è tradotta “eternità”, ma dovrebbe essere tradotta “per semprità”: è la capacità di respingere il passato e di ignorare il futuro, entrambi irrealtà, e di vivere il presente.

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