Raccontino tragico (senza il comico)

Raccontino tragico (senza il comico)

Lo stalker

ANTEFATTO

Sono una scrittrice, conosco il valore delle parole. Per questo la ringrazio Signora Leosini per questa intervista. So raccontare, so scrutare e so trasmettere quello che ho capito. Non saranno delusi i suoi ascoltatori più raffinati. Ho le parole adatte per ogni ragionamento e per ogni racconto, non solo, so anche quale linguaggio usare con chiunque. Fin da piccola scrivevo lettere a tutti e tutti avevano sempre qualcosa d’urgente da dirmi poi dopo.

L’unica differenza questa volta rispetto alle altre è l’assoluta sincerità, assoluta: sarò sincera, non sarò la romanziera, la raccontatrice di storie, la creatrice di balle, quella dalle invenzioni forse più realistiche della realtà ma pur sempre invenzioni.

Si ricordi, Signora, che ho già scontato sei anni su trenta. Uscirò a settant’anni, non ho niente da perdere.

Lo Stalker

Un’ora prima di dormire prendevo metà 5-http, la chiamano la Serotonina vegetale. Se ne ingoiavo una intera iniziavano le previsioni nefaste, mi venivano in testa idee nuove e cattive. Mi veniva un dolore diverso dalla tristezza, un dolore più alto, un dolore che non è mai stato un mio problema, l’ansia: mi venivano, sì, scariche di pensieri che premevono per entrare, come una folla di volti urlanti. Avevo un taglia-pastiglie perché il bottoncino di Griffonia è tondo e senza la scanalatura. Poi leggevo per un’ora.

Quando decidevo di dormire, mi sgocciolavo in bocca quaranta lacrimucce di tintura madre di Biancospino. Con questa pianta crollavo subito. Più ne prendevo e più dormivo: per otto ore occorrevano quaranta gocce, per quattro ore, invece, venti.

Quella sera ero in un ristorante con una coppia, lui regista e lei attrice. Non mi sembravano felici, ma comunque più felici di me. Tutti mi sembrano sempre più felici di me. Se andassi all’inferno, invidierei anche i dannati.

Intanto che eravamo a tavola, intravedevo dalla luce che fuoriusciva dalla borsetta il cellulare che faceva il suono della molla, erano le mail che arrivavano del signor X. E volevo piangere come piange lui sempre, senza controllo. Una trasparente angoscia mi montava dal petto agli occhi. Eppure io scherzavo, loro no. Avevo un sorriso radioso, come una maschera veneziana. Loro due, assieme da pochi mesi, erano noiosi per me quanto, ne sono sicura, l’uno per l’altra: si sono dati la mano, una sopra l’altra, sul tavolo e sembrava che si aiutassero a sopportarsi. Penso che la disperazione includa l’esaltazione, ci si sente degli eroi. La tristezza, invece, è il buio totale, ci si sente dei topi. Io non mi sono mai preoccupata della prima, ma della seconda, è l’unica cosa che non sopporto in questa vita.

Li ho compatiti perché hanno mangiato la pizza, uno ai quattro formaggi, l’altra alle verdure come se due strisce di zucchine potessero compensare il male che fa il glutine. Non sanno, pensavo, che i villi intestinali si atrofizzano a mangiare farina.

Infatti quando hanno finito l’ultimo boccone, a lei è venuta subito una voce rauca, a lui due occhini piccini e retrattili in fondo alla testa. Iniziava già la lunga digestione senza più sangue nella testa. Non potrà fare tanto sesso a casa poi dopo.

Io invece ho chiesto al cameriere un bicchiere di vino rosso e un petto di pollo e verdure cotte.

Non volevo essere magra, bella e scattante, volevo solo non essere triste. Anche il cibo conta. Ho provato ad essere vegetariana, vegana, carnivora, onnivora. Ho provato e riprovato, ho mangiato e ascoltato quello che succedeva dentro il mio corpo, studiandolo a fondo, ascoltandolo, guardandolo, ho fatto mille scoperte. Isolavo il cibo oppure lo associavo tra elementi diversi: proteine con cibi acidi oppure glucidi con zuccheri semplici… ho fatto mille tentativi. Contavo i battiti del mio cuore: con l’indice e il medio destro sentivo il pulsare della vena sul polso sinistro. Contavo le piccole spinte: potevano andare dalle sessanta alle ottanta volte al minuto, ma erano tollerabili anche le novanta pulsazioni. Soprattutto dovevano essere regolari: tum, tum, tum… Prendevo la misurazione prima del pasto e dopo un’ora. Controllavo anche se le mani avessero un piccolo tremolio. Anche il colore dell’iride era importante, guardavo quanto giallo ci fosse. Solo così la tristezza infatti rimaneva sulla soglia, in bilico su una lama, senza cadere all’interno del mio petto. Se introducevo un solo grammo di zucchero l’onda arrivava potente.

Ad un certo punto nel ristorante è partita la musica. Loro ubbidienti e miti sono andati a ballare. Scaricavano il peso del corpo da un piede a un altro pazienti, distratti, come se stessero lavorando, uno di fronte all’altro, comici e seri. Io facevo i salti, la marcia, le buffonate. I miei amici pensavano di sicuro che fossi una donna libera, felice, realizzata, soprattutto fortunata ad avere un uomo innamorato fino alla morte che mi aspettava con molta serietà da qualche parte.

Mentre ballavo, come una schiera a cavallo, arrivarono i maschi. I maschi adorano quelle che sorridono. Le altre ballavano serie. Le luci giravano sulla cagna malata come una candela che oscillava. La musica sembrava un cancello che batte e ribatte contro il muro. L’animale dentro di me strepitava per impaurirmi: sentivo in tasca il telefono che vibrava, mi notificava che c’erano altre mail in arrivo. Mail invece che messaggi perché al contrario di questi, non sono riuscita a bloccare il mittente. Era lui che gridava che mi voleva.

Come avevo previsto, presto, molto presto gli amici mi hanno chiesto di rientrare. Non ho neanche salutato i maschi. Stavo incominciando a divertirmi. Le donne si appagano anche solo esibendosi. Pare che sia un bisogno primario di certe femmine piacere. Io no. Io non voglio più piacere. Mi basta bere vino con qualche amico buono e avere qualche amica con cui parlare. Invece sento da anni piangere il signor X. Devo tenere duro, da sola, incompresa, invidiata. Anche i carabinieri mi hanno fatto un buffetto sulla testa bonari: “Ah signurì, non capisce i meridionali! Ahahaha”. Tutto il giorno tutta la notte sento piangere. Provo quello che una madre prova a non alzare dal lettino un bambino che chiede aiuto nel buio. Tutta la notte, tutto il giorno. Alla mattina suonano alla porta perché arrivano lettere, arrivano pacchi, arriva altro dolore.

“Andiamo?”, mi ha detto lei ingrigita.

“Certo, fai finta che io abbia già il cappotto addosso”. Poi sono andata alla cassa ho pagato per tutti e tre, rallentati, e mi sono fatta trovare alla macchina, sveglia, forte, ma un messaggio dalla tasca mi ha ricordato che sono prigioniera da vent’anni.

Io sono la gracile cagna di Baudelaire, ho pensato prima di andare a casa del signor X con un coltello rubato al ristorante, ma loro non sono miti sono solo stanchi.

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