LETTERA A UNA SUORA DI CLAUSURA

Grazia, ricordi? Solo una trentina d’anni fa tu eri in una cattedra e io in un banco. Ma ci frequentavamo anche fuori: tu avevi una 500 Fiat L tutta scassata e io non ancora la patente. Facevamo le Zette di Salò ai cento all’ora. Fumavi, anche in aula, vicino alla finestra. Avevi orecchini a cerchio, scialli e gonne lunghe un po’ veteroqualcosa. Mi davi sempre voti alti, gli unici belli, perché scrivevo bene.

Sapevi benissimo che se tu fossi morta, mi sarei sparata un colpo di pistola sulla tua tomba, come il generale Boulager. Non potevo concepire la vita senza di te. Infatti mi hai usato la delicatezza di entrare in un monastero di suore di clausure, senza avvisi, né preavvisi.

Ti ho cercato un pomeriggio d’estate, appena dopo la maturità e a scuola mi hanno sparato al cuore la notizia. Leggevo l’ammirazione sulla faccia ottusa della prof di latino, come un affisso elettorale. Ricordo che ho detto clemente: “Credo ci sia un errore, profe, i suoi spartani si spartiranno, noi due no!”. Ma dalla mia tachicardia sapevo che era vero. Incassavo quel calcio nel petto con dignità, tuttavia la lingua era felpata, la gola talmente secca che la voce non passava.

Ha, poi, sogghignato come Mefisto: “Sapevo che le eri affezionata”.

“Si figuri! Chi io? Grazie dell’informazione. Mi dica un’altra cosa…”

Con un pacco di cotone idrofilo in gola: “… non le avrebbe lasciato nulla per me?”.

“No”.

“Magari è uno scherzo. Non l’ha vista passare stamattina?”.

“No”, ha detto la cerbera. Questi no mi si conficcavano nell’anima come freccette in un bersaglio.

Ero asina nel suo ramo per questo non si dava a me con tutta l’anima e tutto il suo eczema. Ci sono insegnanti che ti amano in proporzione al voto. Quando c’era lei avevo la tristezza in tutto il corpo. Con la sua carotide da gallina non riusciva ad agganciare la mia attenzione, tutta girata alla finestra, un grande schermo con un film a colori.

Hai camuffato un suicidio, Grazia, ho poi pensato, se me lo chiedevi ti scaraventavo io da una finestra.

Per mesi, che divennero anni, avevo in testa il leitmotiv: non è possibile!

Per rimpannucciarmi l’anima fredda un giorno le ho scritto. E, incredibile!, mi ha risposto. Le ho riscritto e … per qualche anno.

Avevo una vampata di dolore ogni volta che mi diceva nelle sue lettere che non aveva tempo, scriveva in fretta: ma come? Sei chiusa in un carcere e non hai tempo? Che hai da fare dopo un paio di preghiere alla mattina e alla sera, Dio Santo?

I focus delle mie lettere erano tre: mi hai buggerato, avevo puntato forte su di te, non sei morta ma molto sepolta.

Io ero la classica studente teppista, in guerra, un puledro selvaggio. Piantavo grane, snobbavo, facevo vaccate, regnavo, infangavo. Tutto quello che dicevo era provocatorio. Non avevo fiducia nei grandi. Ero diffidente come quelli che prima di comprare un’aspirina in una farmacia chiedono al titolare dove ha conseguito la laurea.

Le personcine come me, se non sono ormai indurite e coriacee, quando cedono all’amore hanno due occhi grandi come oblò, più pieni di speranza di un bravo ragazzo comune. Commuovono, come i cani che ti seguono pieni di fiducia ovunque vai. Sì, oh Grazia, quando hanno un confidente si aggrappano. L’amicizia diventa un amore calmo e forte. Poiché è stata la mia unica e prima approvatrice, è diventata il mio primo e unico uditorio.

Forse voleva stare in una fiaba, pensavo, in cui tutti sono buoni: il suo animo gentile non sopporta la durezza della vita. Altre volte avrei voluto salvarla: dovrei riversarmi nel convento, trovarla e portarla via dalla cella grigiastra in cui marcisce.

Poi mi arresi: che spettacolo grandioso vedere una simile a me chiudersi in un convento!

Le mie lettere hanno iniziato a scemare, per colpa mia. Finché ho tirato il chiavistello e sono andata via. Sono rimasta raggomitolata nel mio dolore. Ma un giorno sono uscita fuori a fare figli, libri e comprare case.

L’altra sera la Luciana mi ha detto che è stata a Venezia, al convento della Grazia: “Si può andare dentro, un’ora all’anno”. Mi sono tremate le gambe.

Ha chiesto di me e di scriverle.

Se lo facessi la prima cosa che le scriverei sarebbe: ho avuto una maledetta infezione e non ho trovato i sulfamidici, sono guarita lo stesso e tu questo lo chiameresti miracolo, io eroismo.

Grazia, ti prenderei i risvolti della tonaca, ti terrei stretta contro di me, col naso a contatto con il tuo e ti direi: ho capito che quel posto è un paradiso per te, va bene, ma un’altra volta avvisa quando vai via da una tipa che ti trottava sempre dietro.

 

 

 

 

 

 

Ad una festa di carnevale.

 

 

6 Comments

  1. Vitale
    Nov 17, 2017

    Sai scrivere molto bene Samuela… un po’ agiografica… e complimenti per come hai retto la sofferenza…

  2. Samuela
    Nov 17, 2017

    Vitale? Mi inchino a questo nome.

  3. Paolo
    Nov 18, 2017

    Comosso.

  4. Naverompighiaccio
    Nov 20, 2017

    L’angoscia della perdita irrimediabile…complimenti per la resa realistica del sentimento. …

  5. Daniele
    Nov 21, 2017

    L’amre Agape che descrivi è commuovente è l”emozione che mi trasmetti è vera e tangibile, l’amore è l’odio si fondono nella delusione per in amicizia persa , il rammarico per tante cose non ormai che non posso più esistere. Rimangono i sogni ed i ricordi.
    Grazie ancora per avermi fatto partecipe, rimane la voglia,la mia di “consolarti” per in amicizia sincera e leale persa.

  6. Antonella
    Nov 22, 2017

    Proprio bello! Solo chi ha un cuore pieno di speranza e “due occhi grandi come oblò” può guardare al mondo con ironia e considerare quanto meno la possibilità che una donna libera e vera possa trovare compimento e paradiso in un convento di clausura. Ti auguro che non sia un’amicizia persa, ma un’amicizia ritrovata, più grande e più vera

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